Benvenuti nell’era dell’Affitto Perenne: perché non possediamo più nulla (nemmeno il mouse)

Benvenuti nell’era dell’Affitto Perenne: perché non possediamo più nulla (nemmeno il mouse)

Economia dell'abbonamento

C’era una volta un tempo semplice, in cui lo scambio commerciale seguiva una logica lineare: tu davi dei soldi a un negoziante, lui ti dava un oggetto, e quell’oggetto diventava tuo. Potevi usarlo, romperlo, ripararlo o lasciarlo in un cassetto per vent’anni.

Oggi, questo concetto basilare di proprietà sembra essere diventato un ostacolo per i dipartimenti marketing delle grandi aziende. L’esempio più lampante e grottesco è emerso di recente con l’idea del Forever Mouse lanciata (e poi frettolosamente ritirata con imbarazzo, correndo ai ripari con “era solo un’idea, uwu”) da Logitech: un mouse che non compri una volta sola, ma per il quale paghi un abbonamento mensile per ricevere aggiornamenti software. L’idea che un dispositivo di input, la cui funzione è cliccare icone da quarant’anni, abbia bisogno di un canone mensile come fosse Netflix, è la perfetta fotografia del delirio in cui siamo precipitati.

Ma il mouse è stato solo la punta dell’iceberg. Siamo scivolati silenziosamente in un’era in cui il consumatore non è più un proprietario, ma un affittuario a vita dei propri beni. Non stiamo parlando di servizi streaming, dove il noleggio ha senso, ma di oggetti fisici e software essenziali che vengono tenuti in ostaggio tramite la connessione internet. L’obiettivo delle aziende non è più venderti il miglior prodotto possibile, ma trasformarti in una riga di bilancio ricorrente, una mucca da mungere mensilmente tramite il magico acronimo ARR (Annual Recurring Revenue).

E se smetti di pagare? Il tuo acquisto si trasforma in un costoso fermacarte.

L’Hardware in ostaggio: quando la tua auto ti odia

Il settore automobilistico è forse quello che ha abbracciato questa distopia con più entusiasmo. Il caso di BMW, che ha tentato di vendere l’attivazione dei sedili riscaldati tramite abbonamento, è da manuale di storia dell’economia. L’aspetto perverso è che l’hardware (le resistenze elettriche nei sedili) era già lì. Il cliente aveva già pagato per quei materiali e per il loro assemblaggio al momento dell’acquisto dell’auto.

Eppure, un blocco software impediva di usarli senza il pagamento di una gabella mensile. È come comprare una casa e dover pagare il costruttore ogni volta che si vuole aprire la finestra.

Ancora più insidioso è il comportamento di aziende come HP nel mondo delle stampanti. Attraverso il programma Instant Ink e aggiornamenti firmware aggressivi, le stampanti moderne possono letteralmente rifiutarsi di stampare se l’abbonamento scade o se rilevano cartucce non originali. Non importa che la cartuccia sia piena e perfettamente funzionante; se il server centrale dice di no, la macchina si ferma.

In questo scenario, l’utente ha la custodia fisica dell’oggetto, ne è responsabile per lo smaltimento, ma non ne detiene il controllo funzionale. Siamo diventati custodi non pagati di hardware altrui.

Il miraggio digitale e la morte dei videogiochi

Se nel mondo fisico la situazione è irritante, nel mondo digitale è tragica. La recente polemica scatenata da Ubisoft, con un dirigente che candidamente affermava che “i giocatori devono abituarsi a non possedere i propri giochi”, ha scoperchiato il vaso di Pandora. La chiusura dei server di titoli come The Crew, che ha reso il gioco inutilizzabile anche in modalità single player, ha dimostrato che comprare un gioco in digitale a 70 o 80 euro equivale, legalmente e praticamente, a un noleggio a tempo indeterminato che può essere revocato in qualsiasi istante senza preavviso.

Questa volatilità ha dato vita a movimenti di protesta come Stop Killing Games, che cercano di spingere l’Unione Europea a legiferare per obbligare le aziende a lasciare i prodotti funzionanti una volta terminato il supporto ufficiale. Ma la resistenza delle corporazioni è ferrea. Modificare un gioco o un software (si pensi alla suite Adobe) per funzionare offline o senza abbonamento andrebbe contro il modello di business imperante: la dipendenza.

Se possiedi il software, non hai bisogno di loro. E se non hai bisogno di loro, i loro grafici di crescita trimestrale potrebbero non salire verso l’infinito, causando grande tristezza agli azionisti.

Verso un futuro a noleggio

La direzione in cui stiamo andando è molto chiara e, per certi versi, terrificante. Stiamo andando verso un futuro in cui ogni aspetto della nostra vita sarà frammentato in micro-transazioni. Windows sta spingendo sempre più verso il cloud, le funzionalità IA dei nuovi smartphone saranno probabilmente a pagamento dopo un periodo di prova, e persino gli elettrodomestici “smart” iniziano a mostrare funzioni premium bloccate via software.

La “subscription fatigue“, la stanchezza da abbonamento, è ormai una patologia diffusa: controlliamo gli estratti conto trovando decine di prelievi da 4, 9, 15 euro per servizi che usiamo a malapena. Mi viene in mente, parlando di queste cose, una canzone parodia dei PanPers, il cui ritornello cita testualmente “Pago Sky ma non lo guardo” (attenzione, la canzone contiene linguaggio scurrile).

C’è una sottile ironia nel fatto che la tecnologia, nata per darci più potere e autonomia, stia diventando lo strumento perfetto per toglierceli. La comodità ha un prezzo, e quel prezzo è la libertà di dire “questo è mio e ci faccio quello che voglio”.

Forse è il momento di riscoprire il valore del possesso reale, del disco fisico, del software open source e dell’hardware che non chiama casa ogni volta che premiamo un tasto. Altrimenti, nel 2030, potremmo svegliarci e dover guardare uno spot pubblicitario di trenta secondi solo per sbloccare la macchinetta del caffè che abbiamo “comprato”, alla Black Mirror.

E state pur certi che il caffè sarà tiepido, a meno che non abbiate il piano Premium.

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