Quando ChatGPT si spegne, il mondo si ferma

Quando ChatGPT si spegne, il mondo si ferma

Il 10 giugno 2025 è stato un giorno diverso. Un giorno in cui milioni di utenti, abituati ad aprire ChatGPT per chiedere, scrivere, analizzare, pianificare, si sono trovati davanti a un messaggio tanto vago quanto spiazzante: “Something went wrong.”

Niente risposte. Nessun codice generato. Nessuna idea suggerita. Il silenzio.

OpenAI ha parlato di “disservizi a livello globale”, di “latenze elevate”, di “errori generalizzati”, ma non ha detto molto di più. Non ha spiegato, non ha rassicurato. Per ore, la piattaforma è rimasta instabile.

E nel frattempo, qualcosa di più profondo si è acceso: una riflessione collettiva. Abbiamo cominciato a chiederci: quanto ci siamo abituati all’intelligenza artificiale? E cosa succede quando si spegne?

Oltre il guasto: una dipendenza invisibile

Il blackout non è stato solo un errore tecnico. È stato uno specchio.

Per molte persone, ChatGPT è diventato parte del quotidiano. Scrive email, suggerisce titoli, corregge testi, crea contenuti, semplifica concetti, riassume report, organizza idee. Un tempo questi compiti erano nostri, ora li facciamo insieme all’IA, o spesso, li deleghiamo del tutto.

Quando l’IA si ferma, ci accorgiamo che non siamo più gli stessi, che il nostro tempo rallenta, che ci mancano le parole, che il pensiero fa più fatica, non perché siamo meno capaci, ma perché ci siamo adattati a una nuova forma di pensiero ibrido. E il blackout ha messo in pausa anche quello.

Non ci ha solo lasciato senza uno strumento, ci ha lasciati senza un pezzo della nostra nuova identità digitale.

Il lato oscuro dell’efficienza

L’intelligenza artificiale promette velocità, automazione, produttività. Promesse che mantiene, ma come ogni progresso, ha un prezzo.

Secondo uno studio di Semafor, l’addestramento di GPT-4 ha richiesto oltre 62.000 MWh di energia, quanto mille famiglie americane in 5 anni. Ogni richiesta a ChatGPT consuma in media tra 10 e 20 volte più energia di una ricerca su Google.

Dietro ogni risposta che riceviamo in pochi secondi, ci sono server che lavorano, data center che si surriscaldano, impianti di raffreddamento che consumano acqua e risorse. L’IA non vive nel cloud, ma di infrastrutture fisiche che hanno un impatto reale su ambiente, economia e geopolitica.

Il blackout, quindi, non è stato solo un segnale tecnico, ma un campanello d’allarme sulla fragilità e la sostenibilità del sistema che stiamo costruendo.

E se domani succedesse di nuovo?

Proviamo a immaginarlo: non un’ora, non mezza giornata, ma un blackout di 24 ore o di una settimana. Cosa succederebbe?

I team di customer care, che ormai si affidano ai chatbot per gestire i ticket, andrebbero in crisi. I reparti marketing perderebbero i loro copywriter virtuali. Gli sviluppatori junior resterebbero senza assistente. Le aziende che hanno integrato GPT nei flussi operativi vedrebbero i processi incepparsi.

Gli studenti non potrebbero più usare l’IA per organizzare un saggio o preparare un esame, e i freelance che ogni giorno dialogano con ChatGPT per velocizzare la propria attività si ritroverebbero soli, in silenzio, di fronte a una pagina bianca.

In altre parole: si fermerebbe una parte del pensiero produttivo globale.

L’IA è già diventata un’infrastruttura cognitiva ma noi non la trattiamo come tale. Non esistono piani di emergenza, non ci sono alternative e soprattutto non c’è consapevolezza. Il blackout ci ha mostrato quanto siamo impreparati e quanto siamo già immersi in una nuova forma di dipendenza digitale.

Cosa serve ora: resilienza, non solo potenza

L’intelligenza artificiale continuerà a evolversi: diventerà sempre più capace, utile e accessibile. Ma non basta. Deve anche essere più resiliente.

Non si tratta solo di potenziare i modelli. È necessario diversificare le infrastrutture, decentralizzare i sistemi, creare alternative locali e promuovere una cultura del backup e della trasparenza. Serve una progettazione sistemica che tenga conto non solo dell’efficienza, ma anche della fragilità dei sistemi su cui ci basiamo.

Abbiamo bisogno di una nuova alfabetizzazione digitale che ci aiuti a convivere con l’IA senza perderci dentro di essa, e soprattutto, dobbiamo acquisire la consapevolezza che ogni tecnologia potente deve anche essere sostenibile.

Il blackout di ieri non è stato solo un errore tecnico, ma un segnale, un evento dal forte valore simbolico, che ci ha obbligati a guardarci allo specchio e a porci una domanda semplice ma profonda: siamo ancora capaci di pensare senza un prompt?

Non si tratta di nostalgia per il passato ma di progettare un futuro più solido, perché se vogliamo che l’intelligenza artificiale diventi davvero parte della nostra vita, dobbiamo anche imparare a stare senza di essa, almeno per un po’, e in quel tempo sospeso chiederci chi siamo, quando non c’è nessuno che ci risponde.

Un pensiero personale

Come imprenditore, utente quotidiano e osservatore attento di questa trasformazione, sento di essere immerso in una rivoluzione silenziosa ma potentissima. Stiamo costruendo molto, forse troppo, e troppo in fretta.

Il blackout di ieri mi ha fatto riflettere su quanta fiducia cieca abbiamo affidato a una tecnologia che, in fondo, non controlliamo davvero. L’IA è uno strumento straordinario che resta però molto fragile, e come ogni cosa fragile, ha bisogno di cura, equilibrio e consapevolezza.

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